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Da storyteller a storyproducer, il salto quantico del narratore digitale

In una società che non acquista più per necessità, ma per appagare stili di vita, una comunicazione identitaria, basata su determinati valori, viene esaltata da miti ed archetipi perché questi ultimi innescano mondi immaginifici. In questi “nuovi mondi”, grandi cariche emotive coinvolgono l’utente e ne condizionano il flusso relazionale, trasformando il consumo da atto fine a se stesso ad attività in grado di creare un legame con gli altri. Il prodotto smette quindi di essere il fine e diventa il mezzo di interazioni e relazioni.

Concludevo così il pezzo che precede questo sul blog di InnovAttiva. Ma l’ultimo punto altro non era che un ponte su una nuova riflessione. Eccomi qui, dunque, a condividere con voi concetti che non sono affatto inediti, ma che si fatica ad applicare nella quotidianità dei piani editoriali.

Le aziende (e i relativi consulenti) che non capiscono che i loro mercati sono ormai una rete tra singoli individui, sempre più intelligenti e coinvolti, stanno perdendo la loro migliore occasione.

Ecco. Questo è il punto. Anzi no, sapete qual è il vero punto della questione? Tenetevi forte. Il punto è che queste parole – che corrispondono alla diciottesima tesi del Cluetrain Manifesto – furono scritte nel 1999 da David Weinberger, Christopher Locke, Rick Levine, e Doc Searls.

Venti lontanissimi anni fa.

E sono ancora estremamente attuali perché in molti casi profondamente disattese. Le aziende che invece hanno compreso che (come cita la prima delle 95 tesi del manifesto) i mercati sono conversazioni, si sono trasformati gradualmente da storyteller in storyproducer: sono diventati abilitatori di storie. Storie che mettono al centro il brand proprio quando il brand smette di parlare a se stesso e inizia a parlare con un tono della voce umano, condividendo ansie, speranze e problemi delle proprie comunità.

Perché tutto questo sia possibile è ovvio che un brand deve innanzitutto appartenere a una comunità.

Internet consente un livello di conversazione ineguagliabile dagli altri mass media. Il risultato è che i mercati sono diventati più intelligenti, più informati, più organizzati. Le persone in rete sono riuscite a capire che possono ottenere informazioni e sostegno più tra di loro, che da chi vende. Quindi è proprio lì che un brand oggi si gioca la sua reputazione e, di conseguenza, il proprio futuro.

Le aziende devono chiedersi dove finisce la loro cultura di impresa. Leggiamo alla tesi 36 del manifesto citato. Se la loro cultura finisce prima che inizi la comunità, allora non hanno mercato. Sancisce la tesi successiva.

Non c’è che dire, di tanto in tanto, rileggere il Cluetrain Manifesto fa bene alla salute del marketing!

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